Entroterra

Le premesse.

Inizia oggi (ieri ormai, in realtà) il mio viaggio nell’Abruzzo interno. Voglio scoprire, vedere per la prima volta con il mio sguardo di oggi la terra che mi parla da decenni. Due. Ha parlato invano per troppo tempo, è arrivato il momento di offrire l’orecchio. Non l’ho deciso, è venuto.

Un viaggio (che sia nel senso comune del termine o che sia invece in senso più largo una qualunque nuova esperienza) può iniziare da una casualità. Una decisione impulsiva, un automatismo proiettato dall’esterno nel nostro cammino. Oppure ci capita di fare il primo passo di un percorso perché c’è un’esigenza profonda a smuoverlo. Alzi la gamba governato da una rete intricatissima di circostanze che sono poi la trama della tua attuale condizione. L’abbassi e qualcosa già inizia a cambiare.

Ci sono territori che sono solo nostri, e su questi non mi va di accendere luci invadenti e riduttive. Poi ci sono i terreni comuni, e lì non c’è cosa più dolce di poterci portare spiriti affini, banchettarci sopra con una bella chitarra e magari anche un falò, stretti dall’umano collettivo.

Ed è per questo che voglio condividere le mie scoperte, con la volontà di rifuggire ogni autocompiacimento o celebrazione narcisistica, tentazione sottile e insidiosa di ogni esternazione da social network. Ci proverò.

 


Scippa il mio TOMtom.

Tutto tutto così comodo. Così semplice. Pc acceso amici a portata di mano. Tutto qui, tutto subito.
Mi dimentico di me.
L’animale, la bestia, l’uomo delle caverne. Io ero quello, ora sono qui e batto i tasti di una tastiera silver, penso a cose sofisticate e a quanto male possa fare decidere di cambiare.
Un rapporto comodo.
Un casa comoda.
Un lavoro comodo.
Un percorso comodo.
Comunicazione comoda.
Cosa ci danno, cosa ci tolgono. Quello che ci danno è sempre tanto, più di quello che dovremmo desiderare. Quello che ci tolgono è più difficile da ponderare. È più facile che ci sfugga, e che un giorno ci accorgiamo di essere anche la somma di tante sottrazioni.


Un bel dì vedremo.

 

Non capisco perché ma a Bologna i tombini ogni tanto fumano. Un fumo bianco, denso. La città dove anche i tombini fumano.

Faccio un sogno in cui mi immergo nel fumo, scendo nei sotterranei. Sembra nebbia. Non ci sono prefabbricati grigi, nè silos, escludo la Val Padana. Sarà la Piana del Fucino, in quei giorni che sembra tornare il lago. O sarà il fumo fetido e freddo delle fabbriche che sporca di tecnica il cielo.

Continuo a scendere, è tutto sempre più bianco, sempre più pulito ma ingombro. Il mio cammino è interrotto da mucchi di cianfrusaglie, di robe apparentemente alla rinfusa. Sono lì per caso, sono lì per distrazione. Come quelle cose che riempiono i nostri vecchi dipartimenti universitari, scatoloni e macchinari messi nei corridoi come se qualcuno li avesse un dì dimenticati e mai più reclamati. Mi muovo con difficoltà tra i mucchi appoggiandomi alle mura umide e friabili di un corridoio con la volta a botte, ricoperto di un mosaico stellato, dono celeste di civiltà che ci sembrano scomparse.

Mi chino e soffio su un oggetto impolverato. È il mio orologetto con i brillantini, quello che ho perso quando avevo 12 anni. L’avevo progettato io, l’ho fatto fare apposta per me. Per tanto tempo ho spiegato a mia madre come andava fatto. Un giorno è tornata con un pacchetto, e io mi sono convinta che effettivamente era proprio come lo avevo disegnato. Il giorno dopo non lo trovavo più, l’ho cercato a lungo con la frenesia di una bambina, ho sognato indicazioni per ritrovarlo che mi portavano a vecchi armadi in soffitta, dentro tasche di abiti di viscosa anni ’50. Il desiderio inappagato continuava a realizzarsi in mille maniere nei miei sogni (con buona pace di Freud che se la ride beato). Ho poi pensato che era troppo bello per rimanere. La mia prima lezione dell’effimero.

Ora l’ho ritrovato, arriva un momento che è quasi catartico chiudere vecchie questioni, e la scrittura è l’alternativa all’impossibilità di farlo realmente.

Sono nei sotterranei e proseguo senza paura, anzi c’è calma, una quiete d’altri tempi, uno spazio sospeso. Continuo a chinarmi e a scorgere tutte quelle cose che per distrazione ho abbandonato nel mio cammino. E non c’è solo roba mia, ci sono tanti mucchi diversi che giacciono incustoditi. Mi giro e c’è qualcuno che mi segue. Sta cercando qualcosa, io no. Io trovo solamente.

Arrivo in uno spazio aperto, mi guardo intorno e oltre ai mucchi ci sono panni stesi. Panni pieni d’aria. Pieni di parole perdute, di emozioni e sentimenti che qualcuno non ha avuto il coraggio di sostenere, che qualcun altro ha oltrepassato a testa bassa, che qualcuno ha calpestato e scacciato.

Inizio ad acquistare quell’atteggiamento malinconico che mi accompagna sempre quando vado sola al cinema. Proseguo accigliata e inizio ad ascoltare. Litanie ripetute non son che i vani desideri, le preghiere mal riposte, le aspirazioni tracotanti, i propositi per il futuro, le promesse inevase da uomini che non ne conoscono il valore, le recita il vento che gentilmente molesta le querce frondose.

I prati che cambiano nell’intervallo tra un mio passo e l’altro assumendo l’aspetto tipico delle quattro stagioni (il verde il gelo le margherite le foglie rosse gialle e marroni), è il tempo sprecato per la zizzania e il rancore, perduto a rincorrere un affetto che si difende con scudo e armatura, il tempo perso dietro alla stasi, dietro all’immobilismo di una rete viscosa di relazioni, informazioni, possibilità.

Tutto ciò che non abbiamo più, quello che ci è sfuggito, tutto quello che il tempo ha sepolto, tutto quello che nostro malgrado abbiamo dovuto lasciare andare, è in noi. È dentro di noi, nel nostro sangue, nelle nostre cellule. È nella nostra architettura neurale, nelle nostre scelte, nei pensieri e negli sguardi, nelle espressioni e nelle nostre parole. Tutto rimane qui, e si manifesta in tante forme.

È nell’attesa struggente l’amante che non torna dal paese lontano, è nella pazzia d’amore il senno di Orlando, è nel desiderio di riiniziare o di tornare il Paese che ci ha costretto alla partenza, è nella volontà di ricostruire che vive ancora ciò che è stato distrutto, è nel rancore l’occasione sfumata, nel nostro Dna la storia dell’Universo, sono nel tronco dell’ulivo tanti secoli di vento.

CHI mi segue?

[…] In un vallon fra due montagne istretto,

ove mirabilmente era ridutto

ciò che si perde o per nostro diffetto,

o per colpa di tempo o di Fortuna:

ciò che si perde qui, là si raguna.

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Non pur di regni o di ricchezze parlo,

in che la ruota instabile lavora;

ma di quel ch’in poter di tor, di darlo

non ha Fortuna, intender voglio ancora.

Molta fama è là su, che, come tarlo,

il tempo al lungo andar qua giù divora:

là su infiniti prieghi e voti stanno,

che da noi peccatori a Dio si fanno.

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Le lacrime e i sospiri degli amanti,

l’inutil tempo che si perde a giuoco,

e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,

vani disegni che non han mai loco,

i vani desideri sono tanti,

che la più parte ingombran di quel loco:

ciò che in somma qua giù perdesti mai,

là su salendo ritrovar potrai.[…]

L.Ariosto, L’Orlando furioso – Canto 34,



Hanno sparato al drago. Rivivisciiii!

[…]” L’immaginazione del bambino, stimolata a inventare parole, applicherà i suoi strumenti su tutti i tratti dell’esperienza che sfideranno il suo intervento creativo. Le fiabe servono alla matematica come la matematica serve alle fiabe. Servono alla poesia, alla musica, all’utopia, all’impegno politico: insomma, all’uomo intero, e non solo al fantasticatore. Servono proprio perché, in apparenza, non servono a niente: come la poesia e la musica, come il teatro o lo sport (se non diventano un affare). Servono all’uomo completo. Se una società basata sul mito della produttività (e sulla realtà del profitto) ha bisogno di uomini a metà – fedeli esecutori, diligenti riproduttori, docili strumenti senza volontà – vuol dire che è fatta male e che bisogna cambiarla. Per cambiarla, occorrono uomini creativi, che sappiano usare la loro immaginazione.”
Da Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Einaudi ragazzi, Trieste 2010 (1973 prima ed.)


Immunità (1a puntata)

 

Concordo con Paolo Rossi quando dice che l’unico modo per parlare di Italia in questo momento è utilizzare il registro della fantascienza. È tutto così assurdo che Samuel Beckett a confronto è diventato quasi rassicurante. Da caminetto e pipa.

C’è un premier che pur di non andare al fresco sta manipolando a suo piacimento un paese intero, da anni. E ormai ce l’ha detto in mille modi, chiaramente. Ma l’Italia ha iniziato a parlare una lingua aliena.

Non ci capiamo più nulla. È successo tutto quel giorno.

Ero sull’amaca in giardino, un pomeriggio torrido di dicembre. Leggevo la storia dell’albero a cui era appeso un capo della mia amaca. Con una semplice fotografia e un piccolo frammento dell’arbusto centenario il mio fedele I-sto ne aveva tracciato l’evoluzione, le interazioni e le virate ambientali. Ho iniziato dal mio giardino per poi passare alla città, alla sue pietre rosse, ai portici. E alle persone. Un modo per riprendere in mano le fila di un passato che durante l’ultima “giornata della semplificazione” è stato cancellato. E’stata una decisione abbastanza condivisa, non c’era proprio più spazio in memoria. L’hard disk collettivo era saturo. Al ballottaggio sono arrivati “Come comportarsi durante una cerimonia” e “Storia delle cose e degli uomini”. La prima può servirci ancora, hanno detto. Il passato è passato.
Però hanno detto che ognuno è liberissimo di ricordare da sé. Tutti i testi, tutto quello che è stato verrà compresso in un piccolo aggeggio acquistabile in comode rate. Così se a qualcuno venisse voglia di recuperare qualcosa, può tranquillamente farlo. Che nessuno venga a dire che vogliamo annullare la Storia. Stiamo facendo solo un po’ d’ordine. Un’unica restrizione: non iniziate a raccontare, che ognuno faccia per sé, sennò poi l’hard disk collettivo si riimpalla e dobbiamo adottare misure più drastiche.

….continua…


-Information disorder was not enough-

Ho deciso di peggiorare le mie abilità informatiche.

L’impotenza tecnologica è uno dei problemi trascurabili della nostra Penisola. In più è una cosa che mi interessa pochissimo. Perciò lavorerò duro per portare alla massima entropia questo ambito, voglio togliere le mani da tutti gli altri. Ho una mia personale teoria: più esploro e approfondisco i  territori, più li rendo caotici. E’tutto così caotico. Tutto interagisce con tutto. Il tutto diventa troppo di più della somma delle parti. Più scopro e più cose ci sono da mettere in ordine. La mia tazza incrostata sulla scrivania da giorni e quei fogli fitti di appunti che sono ormai la tovaglia del mio nuovo semestre di studio,  sono un chiaro segnale che sul fronte del dispendio energetico per compiere lavoro utile sono un po’ in affanno. Ho bisogno di una moneta energetica da sfruttare per la mia personale configurazione.

Il mio blog sarà un po’ questo: catturare le spinte e le energie delle informazioni, degli eventi e delle idee che mi ronzano attorno, sul web e sulla carta. Catturarle e stabilizzarle. In una cornice, in una matrice di categorie.

Creare le mie personali prossimità. In altre parole “unire ciò che è diviso, dividere ciò che è unito”.