Sul tavolo un mazzo di fiori.

Oggi me ne vado a Firenze, vado a trovare Fabio. Il blablacar che ho provato a contattare dice che è pieno. Bologna firenze 24 euro? Freccia rossa di mmmmmerd, ho appena perso l’unico intercity della mattinata.

Con questo sole non sono sola ad andare a Firenze. Ci sono delle ragazze cinesi, delle modelle penso. Con i loro capelli lisci e lucidi, le labbra rosse e acquisti freschi milanesi. Poi ci sono delle americane aria sognante e braccialetto d’oro. E poi arriva la mia vicina. Mi sale un moto di preoccupazione a guardare la sua enorme valigia, la sua enorme pellicciotta. Le guardo e non riesco a collocarle in nessun luogo nei 20 metri intorno a noi. Lei pare non farci caso e lascia la valigia in mezzo al corridoio e appende la pellicciotta sopra la mia spalla.

Provo a dissimulare l’accesso improvviso di nervosismo e insofferenza “ma guarda tu che treno di merda, 24 euro e non ci entriamo nemmeno con le gambe”. Il controllore le fa portare la valigia fuori dalla carrozza. Lei inizia a sporgere la testa come un pendolo preoccupata che qualcuno possa riuscire a sollevarla e portarsela via. Io la rassicuro. Solo lei con i suoi 130 kg x 1,80 m può farcela. “E’ russa signora?”. E’ rumena, sta andando a Napoli. Torna a casa, la sua casa. Era la casa della “vecchia”, ora è la sua casa grazie a Dio. Mi racconta che i figli della signora che ha assistito per 12 anni hanno deciso di farla rimanere lì, gli hanno detto che ci può invecchiare e ci può ospitare anche i suoi figli. La mia faccia stupita la spinge a spiegarmi che negli ultimi anni la nonnina era molto malata e lei l’aveva accudita come fosse sua madre. I figli avevano premiato questa dedizione e volevano che lei continuasse a prendersi cura della casa. Mentre parla congiunge e allarga spesso le mani come per riassettare un tavolo, come per mostrare come le cose si siano col tempo sistemate. Ora sul tavolo è tutto in ordine, tutto al suo posto. Ha lasciato la Romania 14 anni fa quando il marito è morto, lasciando soli 3 figli adolescenti. Ora è sola a Napoli, è andata a trovare la figlia che si è sistemata a Bologna e ha una terrazza con tanti fiori.

“Mi piacciono fiori, li compro sempre, per il tavolo de casa Napoli. Però marito fiori erano più belli, portava sempre tanti. Non trovo fiori così a Napoli, non so perché, stesso tipo ma no belli come fiori marito”.

Le sorrido. Lei tace per un po’ e aggiunge “forse, una cosa di testa”.

 

 


Il pirata

Ore 9. Il paziente del letto 21 è sofferente. Stanotte ha chiamato le infermiere. Gli hanno dato la morfa. Dicono tutti che è un pezzo grosso della malavita siciliana. Lo dicono tutti a bassa voce, e lo dicono con una certa goduria. E’ai domiciliari. E lo dicono ancora con un certo piacere nell’espressione, deve esserci sicuramente dell’altro in quello schiocco di lingua. Andiamo a vederlo, veloce scorsa alla cartella clinica.

Ha subito una resezione del lobo superiore sinistro già 5 gg fa, ma il drenaggio è ancora molto brutto. Anzi, è orrendo, da riaprire forse.

Entriamo nella stanza con la mia Dolores d’acciaio, la specializzanda che prenderà un giorno i suoi due gatti e se ne andrà in Namibia con il nostro pirata.

Vito ha l’aspetto sofferente, ma è un pirata. Ha la pelle bruciata dal sole, un tatuaggio ad anello sull’indice, lunghi capelli bianchi e un sorriso fresco.

Gli chiediamo se ha male. Risponde chiudendo gli occhi e facendo salire lento il suo “un po’”che sbocca siciliano tra i suoi denti. In realtà respira rapidamente e ha l’aspetto tutto stropicciato di chi blocca dentro un torrente. Una donna, una infermiera del reparto di urologia al suo capezzale lo guarda con tenerezza e dice che respirerà meglio senza il suo pezzo di polmone malato. Poi ci avvicina in corridoio e ci dice di capirlo. E’un duro, non si lamenta. Ma ha tanto male. Ce lo ripete, tante volte. Come se ogni altra ripetizione fosse in fondo un modo per non dire tutto il resto. In ognuna di quelle ripetizioni io sentivo altre frasi, l’amore per il suo pirata, la gioia di averlo vicino e il rammarico di doverlo condividere con il chirurgo. E’un uomo che non si lamenta mai. Un moto di invidia ci unisce, me e la specializzanda coi gatti.

Torniamo in stanza con le siringhe. Dolores mi lascia sola e va a prendere altri materiali. Io inizio a guardarlo. Lui mi guarda e mi dice “ora dovrei essere in Africa”. Ha delle barche laggiù. Ha sempre fatto il pescatore a suo dire. Tra Namibia e Madagascar. Si pescano gamberi e altro pesce. Ha un ritmo magnetico e le sue labbra si muovono appena per mostrare la simmetria dei suoi denti bianchissimi. Mi continua a dire dell’Africa e di quanto sia bello. Torna la specializzanda e inizia le sue manovre, il bolo starter di morfa è già in circolo e poi prepara velocemente l’infusione continua, ma la vena non va granché. “E fatemelo un altro buco, dai”. Porge il braccio e mentre gli si mette un’altra via torna a parlare dell’Africa. “Ehhh ora non va poi tanto bene nemmeno laggiù.” A vedere i nostri volti catturati, gli vien voglia di parlare ancora. Dice di aver conosciuto Mandela, di averlo frequentato per 15 anni durante i quali la sua massima preferita era stata: “Ogni uomo è capitano della propria anima”. E piange come un uomo fa, con un rivolo brillante a sottolineare il suo sguardo.

Finisce il mio turno e me ne torno con in testa il pirata e uno schiocco di piacere nella lingua, assaporando il nostro prossimo incontro.

 

 


Simpatia

Per la serie “Allora, è bona? – E’un bel tipo…simpatica!”

dott1: Fai tu gli esami [di ginecologia] domani?
dott2: Si, perché?
dott1: Ah allora ti raccomando un’amica di mia figlia, la dobbiamo aiutare, è taaaanto simpatica!
dott2: Ma certo, e che problema c’è?

“- Non è comunque per me, siamo troppo diversi – ”
Quante bugie ci raccontiamo.


Being a home with tiny wooden window.

“Come vorrei raccogliere le vostre case nella mia mano, e come il seminatore sparpagliarle nelle foreste e sui prati.

Potessero le valli essere le vostre strade, e i verdi sentieri i vostri vicoli, così da accogliervi l’un l’altro tra i vigneti con il profumo della terra negli abiti.”

Questa frase mi ha fatto tantissimo pensare a quei paesini di montagna che mi è capitato di osservare incantata dall’autostrada. La loro forma è un tacito accordo con la natura, è il frutto dell’equilibrio dinamico con il suolo, le acque, gli alberi. E ho sempre fantasticato sull’origine: se avessi un minimo di competenza in ambito grafico vi proporrei pure l’immagine che mi viene sempre in mente mentre li guardo. Ci proverò. Ce n’è uno in particolare sulla Avezzano-Pescara. Si trova proprio sul punto di incontro di due mezzi crinali. Inizia da lì con una punta, sarà la chiesa, il comune, o una cosa qualunque favorita dalla prospettiva. E poi man mano, queste casette di pietra, mattoni o altri materiali dall’aspetto rassicurante si allargano e adagiano sui piedi delle due alture. Proprio come il flusso pacato di un rubinetto aperto a metà. Abbastanza vicine da sentire il calore degli umani che le abitano, lontane per ritagliare in piccoli frammenti ordinati il pezzo di paradiso che si riproduce e vibra di vitalità intorno.

 

 

 

 


Si tu si omu e non si testa pazza

 

Oggi  è partita così, con il Sud.

Fuga dell’anima

tornare a sud,

Che sudati è meglio
e il morso è più maturo
e la fame è più fame
e la morte è più morte
sale e perle sulla fronte
languida sete avara
bellezza che succhi la volontà
dal cielo della bocca
bocca bacio di pesca che mangi il silenzio
del mio cuore

E poi mi sono messa a fare colazione, alla finestra.

Sugnu sempre alla finestra e viru genti spacinnata, sduvacata ‘nte panchini di la piazza, stuta e adduma a sigaretta, gente ca s’ancontra e dici “ciao” cu na taliata, genti ca s’allasca, genti ca s’abbrazza e poi si vasa, genti ca sa fa stringennu a cinghia, si strapazza e non si pinna, annunca st’autru ‘nvernu non si canta missa, genti ca sa fa ‘lliccannu a sadda, ma ci fa truvari a tavula cunsata a cu cumanna.
E il mafioso che arriva col macchinone e deve fare la comunione, il prete he taglia l’omelia con due parole per fargli fare la comunione, la Giusy/giusippina moglie dell’imprenditore arricchito che vuole la lemonsoda, e il tipo che vuole che esca a ballare piuttosto di stare a guardare…
Va bene, ha ragione, inizio a far qualcosa. Mi spingo all’azione, niente di meglio che questo canto popolare della metà dell’800, ripreso da Dario FO, Domenico Modugno, Carmen Consoli, Roy Paci. Cristo in croce risponde al villano che gli chiede giustizia contro il padrone di tirar fuori il bastone, di incazzarsi perchè nessuno farà giustizia al posto suo. Bella la storia di questo canto, le cui prime tracce si intercettano nella “Raccolta di canti popolari siciliani” pubblicata a Catania dal marchese Lionardo Vigo nel 1857. Da fonti non verificate si dice che per l’occasione sia stato modificato per sfuggire alla censura del Regno Delle Due Sicilie e vengono messe in bocca a Cristo parole di rassegnazione(“a chi ti offende, bacialo e abbraccialo, e in Paradiso siederai con me”).
Caduti i Borboni, si afferma la versione corretta (che troviamo nella ‘Raccolta amplissima di canti popolari siciliani‘ dello stesso Vigo, edita dopo il 1870) nella quale, invece, Cristo invita il servo alla ribellione “E tu hai forse storpie le braccia/oppure le hai inchiodate come me?/Chi vuole la giustizia se la faccia/né speri che altri la faccia per te”.
Insomma, posso iniziare a studiare.

Stamattina andiamo in giro per l’Esteuropa

 

 


{Non} Preferisco il rumore del mare.

 

Lieve esaurisco i tuoi venti propizi.

HO stretto alleanze e allontanato i nemici. MI sembra che siano d’acciaio, ma io vorrei che fossero di carne.

Arriva il momento di tornare in sè, di concentrare gli sforzi. Arriva il momento in cui è più importante leccare margherite e sporcarsi le mani di polline, in cui il perimetro dell’interesse sia per un po’ descritto dall’epidermide . Il momento in cui l’informazione è troppa e gli emissari, proprio come quelli del vecchio e estinto Fucino, troppo pochi, se non assenti. Allora lo sforzo è tutto teso a cercare gli occhi, le mani e le labbra. Le parole anche, ma poche e sensate.

Se c’è qualcosa che mi piace, ecco quello è cambiare. Cambiare sempre quello che non mi piace. A mio nonno i pesci che gli ha voluto regalare Davidino non piacciono. DIce che lo fanno vergognare, lui che domava i tori, le vacche più temibili dell’intera marsica, lui di 50 kg x 1,60 m che tornava a piedi dalla Sicilia, lo stesso lui della Riforma Agraria. Due pesci rossi dietro le spalle non li sopporta. ‘Dado, è come se io ti regalassi un vestito da ballerina.’ gli dico io, in realtà è qualcosa di più, ma non so come spiegarglielo. Tu il vestito da ballerina lo puoi indossare forse un giorno per ridere, a Carnevale per esempio. Non c’è giorno per i pesci nella vita testarda e coerente di un contadino meridionale.

III’ so terrestr’, ste cose non le posso vedè. Non me piacciono manco quelli che se magnano, figurati ste bestiole. Anzi, mi mettono tristezza, stanno là dentro, in gabbia, vedono che io non me ce regiro, diranno pure che stem’a fa qua, sicuro se morono. PORTATELI via, sci beneditt’ , te deng pure 20 euro.

Ed è giusto, è giusto e bello così.

Mio nonno non cambia mai. Vive un altro mondo, un altro secolo, un’altra era geologica. Dice che è na stronzata vivere fino a 90 anni e che prima a 70-75 anni si moriva e si lasciava il posto agli altri.

L’ossigeno e l’idrogeno continuano da millenni a interagire solo perchè quello che vien fuori è acqua, è vita, è meraviglia.

 

 

 

 

 


Incanto scenico

Oggi sono andata a vedere un film, con la pioggia e l’aria di festività in tempi di crisi.The Artist, film muto del XXI secolo.

“Era un film in costume, nel quale si vedeva un’attrice molto carina – che rimarra anonima – macerarsi nel silenzio per un grande dolore, tradendo l’angoscia negli occhioni pieni di sentimento e più eloquenti di Shakespeare. Poi ad un tratto, nel film entrava un nuovo elemento: il rumore che si sente quando ci si porta all’orecchio una conchiglia marina. Allora l’adorabile principessa diceva, come se avesse la gola piena di sabbia: << Sposerò Gregory, a costo di rinunciare al trono >> Fu un colpo tremendo, perché fino a quel momento la principessa ci aveva ammaliato. […] Io però ero deciso a continuare a fare film muti, perché credevo che ci fosse posto per ogni sorta di svaghi. Inoltre ero praticamente un mimo, unico nel suo genere, e, senza falsa modestia, un maestro. Proseguii pertanto la lavorazione di un altro film muto, Le luci della città. […] Dall’avvento del sonoro, che furoreggiava ormai da tre anni, gli attori avevano quasi disimparato a recitare pantomime. Tutto il loro tempismo se ne andava in chiacchiere e non in azione. “

Da Charles C. Chaplin, Charlie Chaplin – La mia vita

Azione e espressione in un film muto ti lasciano tutto il tempo di capire e di riflettere. Il tempo si dilata e c’è solo l’uomo con il suo corpo e la sua volontà. E’ tutto così chiaro e evidente, l’artista è arrabbiato perché è ferito nell’orgoglio, l’artista si spingerà una canna in gola, l’attrice sensuale e stupenda con il suo neo agisce tutta la profondità del suo sentimento.

Gli occhi e le parole possono mentire spudoratamente. Il corpo sta lì e segue il flusso viscerale dell’universo.


#1.2 Rovere

Allora torno in macchina, faccio benzina e continuo verso Rocca di Mezzo. Presto vedo un centro abitato che sale su uno spuntone di pietra. Mi sembra carino e parcheggio. Robur marsorum c’è scritto su una lapide all’ingresso del paese. Mi avvio verso il top dell’abitato. Salgo e stavolta il centro storico è addormentato e sembra non avere alcuna intenzione di svegliarsi. È tutto in ristrutturazione, è tutto silente, solo colpi sul cemento e una musica araba che li accompagna. Salgo ancora e incontro solo operai stranieri che mi guardano stupiti. In cima c’è una rocca in stato di totale abbandono, piena di rovi e piante. È molto bella, molto solitaria. Più avanti c’è un sentierino che porta ad una punta a picco su due vallate. Ad aspettarmi sull’eminenza c’è una bianchissima madonna a braccia aperte e un altarino con delle iscrizioni risalenti al tempo recente della deposizione della statua. Gli ultimi abitanti l’hanno messa lì e contano che li protegga dall’alto. Non basta più starsene tutti nelle loro casette vicine e solidali, forse da quando le possibilità della città hanno svuotato questi piccoli scomodi e tranquilli paradisi. È una madonna veramente imponente, bell’espediente per infarcire di fede il canale emotivo aperto dalla suggestione del posto da capogiro. Io la guardo aspettando l’illuminazione, poi mi ricordo di averla già avuta oggi davanti a un finto film americano e mi è sembrato più che sufficiente, ho alzato le spalle e mi son voltata a guardare la rocca, nella sua negletta solitudine.

Intanto le nuvole si fanno sempre più basse, scure e minacciose. Forse è il caso di tornare giù, penso mentre scanzo rami e rovi che occupano a buon diritto il sentiero.

Torno nel borghetto, inizio a scendere convinta che tutte le viuzze mi porteranno dove devo andare. – Signorì, sto paese è tutto tuo. Tu sei uuu-niiii-caaa, guarda un po’. Non c’è nessuno, tu sei la padrona di tutto. Come mai da ste parti, tutta soletta?

-Siamo in due allora, padroni del paese. Lei pure sta qua…

-Eh ma io so vecchio, che pozzo fa più…-E gli altri addò stanno?- Chi ce sta più qua, poi co sto tempo…stanno tutti a dormì.

E’Italo, 85 anni suonati e una tenuta da cacciatore iscritto alla LIPU. Ha un bel binocolo e sorveglia la zona, segue la storia dei camosci e delle volpi. Ci guarda pure i funghi e scopre se può partire col cestino. Dice che queste cose le fa per noia, perché è un paese noioso e deve pur fare qualcosa. Ogni giorno si mette di fronte al costone con il desiderio che il camoscio femmina, che occupa il mezzo superiore della montagna incontri il camoscio maschio che si trova nell’altro mezzo inferiore. A suo dire questo non è mai avvenuto. – L’Africa ha un male profondo dentro, ti cattura, ti porta a fare cose di cui ti pentirai. Sono dovuto tornare a forza, sennò sarei rimasto per sempre.

E’la stessa storia del camoscio, come ho scoperto un manipolo di storie dopo.

…continua…


#1.1 Celano-S.Iona-Ovindoli

Stamattina era la mattina perfetta. Tempo bello, macchina a disposizione, pochi familiari cui dare spiegazioni nei paraggi. Sembra una cosa assurda ma dire ad una nonna che stai andando in macchina da sola a fare una gitarella non è proprio così semplice. – Addò va? Escìì, da sola? E’piiiin’de curve, statt’ecc. E che c’ha da ii a fa? – Okei, nonnì, vado a trovare una mia amica.-Addò abbita? – Su, ci vediamo verso Ovindoli, non te preoccupà, non torno a pranzo -Non revenì de notte, sci beneditta. Al ritorno mia madre mi dirà: sta figlia è proprio matta.

Uno sguardo veloce a googlemaps tanto per verificare la mia bella cartina cartacea. Si parte.

Il mio piano confuso e volutamente poco definito ha come idea di base Ovindoli. Si trova a nord est rispetto ad Avezzano, il nome alla partenza mi dice poco più che campi da sci.

Per arrivare a Ovindoli devo passare da Celano. In un quarto d’ora sono lì, sbaglio bivio e mi ritrovo in vicoli intricati dentro il paese che mi portano vicino al Castello Piccolomini. Decido di approfittare dell’errore e parcheggio. Prendo una di quelle viuzze che mia zia chiamerebbe “‘mpettata” e sono al Castello, entro in un bar e faccio colazione. Tante, troppe macchine per una cittadella. Un bambino celanese mi si avvicina di soppiatto – Oh, tu come ti chiami? – Oh, lo sai che vado a Mirabilandia? -Sisi, li faccio tutti, pure quelli più alti.

Celano ha una forma molto disordinata. Sembra che ognuno abbia pensato a sè mentre costruiva. La parte vecchia è più uniforme, si affaccia sulla piana e si fa precariamente sorreggere dalle pendici della Serra di Celano. Gli affacci di casette di pietra e case del dopoguerra dismesse dominano il Fucino e una montagna senza sentirne il peso. Insomma, una bellezza inconsapevole, “bionda senza averne l’aria“.

Mi rimetto in macchina, direzione Ovindoli. Rimango per qualche minuto a girare tra i tornanti e i vicoli celanesi senza riuscire a trovare l’uscita. -Qui per Ovindoli? Un signore sulla 60ina scuote la testa e sorride come se avessi chiesto ad una sarta l’uso dell’ago.- Signorì, devi saliì sopra, fino alla piazza e poi dritto dritto.

Mi ritrovo dietro a un rimorchio di rotoballe di fieno. Da vicino sono gigantesche e mi vogliono impedire il sorpasso. – Oh stai lì, pazienta, aspetta. – Rotoballe, so che vorreste seguire semplicemente quello che è nelle vostre corde, rotoballe che rotolano. Ma state lì, aaargh! Ascoltano il mio pensiero e se ne stanno pesanti e tacite nel cassone arrugginito.

Non vedo l’indicazione e giro per S.Iona, mi pareva di averla vista sul percorso nella cartina. Si scende e questo mi puzza un po’. Infatti dopo poco incontro l’indicazione Ovindoli 9 km, nella direzione opposta. Mi fermo a S.Iona e mi faccio una camminata fino alla Torre. Insediamento medievale, torre d’avvistamento che rientra nel sistema difensivo di Celano. Citata pure come “Jonas” da Tito Livio. Rimangono dei resti della cinta muraria. Intorno alla Torre tante casette in rifacimento dal sapore duecentesco. Fiori alle finestre, vicoli stretti dove quasi pure una bici fa fatica a passare.

Si riparte e stavolta in poco più di 20 minuti sono ad Ovindoli, la mia macchina leggera sculetta tra i tornanti e riprende stabilità tra i pini neri che costeggiano la salita. Entro in un centro informazioni turistiche perché sono già in riserva e voglio chiedere dove fare benzina. Mi accoglie una voce giovane. Le chiedo informazioni generali su cosa fare-vedere nei dintorni e lei senza guardarmi attacca una cantilena e con pochi automatici gesti traccia dei segni sulla cartina. Avrà la mia età, ma sembra distante anni luce, dietro la sua giacca nera sobria. Finisce il nastro e io mi inserisco con una domanda, anche per questa ha il suo bel file audio che inizia e finisce senza espressione. Il nuovo che avanza, peggio peggio peggio del vecchio.

E’ freddo, ho portato solo un golfino leggero. Inizio a salire i vicoli e il paese vecchio sembra completamente addormentato. Tutto lascia intendere che qualcuno si sveglierà, ma per ora parlano solo le mura di pietra e i vicoletti. Mi infilo in un antro stretto tra due case con un bell’archetto basso di pietra, salgo ancora con addosso la sensazione sgradevole di violare qualcosa e ritrovarmi con un piede in qualche stanza da letto o cucina, tanto è  casalingo e informale l’aspetto di queste viuzze.

Continuo verso la statua dell’Alpino e mi ritrovo in un posto magico, di quelli da meditazione. Bisogna starci, non si può spiegare. Siedo su una roccia modellata da migliaia di culi, liscia e levigata. Intorno il freddo si fa scuro e minaccioso tra i pini delle due alture che accompagnano quella su cui troneggio. I pini sottili e stretti come a dover porre strenua e continua resistenza al quotidiano attacco antropico, si inclinano in direzione opposta all’avanzare trionfante dell’abitato. In linea d’aria, di fronte e me, c’è un bel rifugio trapiantato qui direttamente dalle Alpi. Le case nuove riproducono artatamente lo stile alpino, con i balconi in legno, le finestrelle e il legno intagliato sulle facciate. Dall’alto il centro storico le smentisce, così denso e così grigio di pietra.

I borghi antichi, con la loro compattezza, possono parlare di tante cose. Per esempio di un tempo in cui la gente voleva stare insieme, temeva la solitudine e si stringeva perché si sa, la sventura si affronta meglio in tanti. La sinergia, la solidarietà che non lascia nessuno indietro in momenti e condizioni storiche in cui tutti stanno al fondo della salita. E poi il freddo si affronta meglio in un grumo di terra che in una landa estesa. Le finestre come fessure sono un’altra arma della stessa battaglia.

Scendo nella piazzetta e entro in uan rosticceria con l’intenzione di prendere un pezzo di pizza e ripartire. Cedo con piacere ad una bella scodella di coccio di zuppa di lenticchie e pasta fatta in casa, mi siedo e decido intanto la mia prossima meta, nella beatitudine di un pasto semplice e autentico. Vorrei fare uno dei giri nel verde che mi ha indicato la macchinetta delle informazioni ma sembra voler piovere.

Allora torno in macchina, faccio benzina e continuo verso Rocca di Mezzo. – Signorì, sto paese è tutto tuo.

…continua